Pubblicata la Direttiva greenwashing, parte l’iter per quella sui green claims. Il caso JBS negli USA

Grenwashing concorrenza e mercato

L’UE alle grandi manovre sul greenwashing, dopo la Direttiva greenwashing il Parlamento europeo approva la Proposta di Direttiva sui green claims. JBS sul banco degli imputati nello Stato di New York, spunti per una riflessione sulle comunicazioni ambientali

 

Pubblicata la Direttiva greenwashing

La Direttiva europea 2024/825/UE, analizzata nella nostra recente pubblicazione “Il Parlamento europeo entra a gamba tesa sul greenwashing” (https://www.rilex.it/il-parlamento-europeo-entra-a-gamba-tesa-sul-greenwashing/), è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 6 marzo 2024 ed entrerà in vigore il 26 marzo 2024.

La nuova normativa europea in materia di greenwashing dovrà essere adesso venire recepita dagli Stati membri entro il 27 marzo 2026 e dovrà essere applicata entro il 27 settembre 2026.

Ricordiamo che la Direttiva vieta le comunicazioni, sui temi ambientali e sociali, ingannevoli e generiche, ma anche asserzioni come “sostenibile” o “responsabile” basate soltanto sull’eccellenza ambientale (dell’impresa o del prodotto), in quanto “tali asserzioni riguardano altre caratteristiche oltre a quella ambientale, come le caratteristiche sociali”.

Tra le altre novità introdotte dalla Direttiva recentemente approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo, va segnalato il divieto di riferire a tutto il prodotto o all’intera attività di impresa un’eccellenza ambientale che riguarda, invece, soltanto una parte del prodotto o dell’attività di impresa.

La Proposta di Direttiva sui green claims

Il 12 marzo 2024 il Parlamento Europeo ha poi approvato, così avviando il relativo iter legislativo, la Proposta di Direttiva sui green claims volta ad introdurre nell’ordinamento europeo e in quello degli Stati membri un sistema di verifica e di approvazione preliminare per le dichiarazioni ambientali rese dalle imprese su base volontaria, in modo da contrastare l’abuso di annunci ingannevoli e fuorvianti, anche perché, come riferito dal relatore della commissione per il mercato interno Andrus Ansip, “oltre il 50% delle dichiarazioni ambientali sono vaghe, fuorvianti o infondate” e si pone, quindi, la necessità di tutelare i consumatori.

Termini, sanzioni ed esenzioni per le microimprese

Il Parlamento europeo, con la Proposta di Direttiva approvata il 12 marzo 2024, chiede, in sostanza, di obbligare le aziende a presentare prove scientifiche a sostegno delle dichiarazioni di marketing ambientale con cui accompagnano e pubblicizzano i loro prodotti, così che saranno vietate tutte le etichette, come “rispettoso dell’ambiente” o “biodegradabile” – o, ancora, come “ecofriendly” o “a impatto climatico zero” – non accompagnate da un’evidenza scientifica.

Spetterà, poi, agli Stati membri invece, secondo il testo della Proposta approvata, identificare le autorità alle quali spetterà il vaglio sulle dichiarazioni ambientali, con un iter per la valutazione della loro conformità alle prove scientifiche fornite dalle aziende che dovrà esaurirsi entro trenta giorni.

La nuova Direttiva, ovviamente se verrà approvata dal Parlamento europeo, non troverebbe applicazione per le microimprese (quelle con meno di dieci dipendenti e con un fatturato annuo non superiore a due milioni di euro), mentre dovrebbe essere assicurato alle PMI un lasso di tempo maggiore, un anno, per recepirla.

Da non sottovalutare l’aspetto sanzionatorio, stante la previsione di importanti sanzioni pecuniarie, come la perdita dei ricavi e ammende pari almeno al 4% del fatturato annuo, con la possibilità di esclusione temporanea dell’impresa dalle gare di appalto.

Compensazione e rimozione del carbonio

Sarebbero infine vietate le dichiarazioni ecologiche basate esclusivamente su sistemi di compensazione del carbonio.

Le imprese potrebbero, tuttavia, menzionare le azioni di rimozione e compensazione delle emissioni di carbonio (offset) nei loro annunci, solo se hanno già ridotto il più possibile le loro emissioni e utilizzano tali sistemi solo per le emissioni residue. I crediti di carbonio dovranno essere certificati, come quelli stabiliti nell’ambito del quadro di certificazione per la rimozione del carbonio.

Il caso JBS

E’ invece di pochi giorni fa la notizia che il Procuratore generale dello Stato di New York, Letitia James, ha intentato una causa contro il più grande produttore mondiale di carne bovina, presente negli Stati Uniti con le Società JBS USA Food Company e JBS USA Food Company Holdings. La causa contesta l’asserzione della multinazionale brasiliana di raggiungere il traguardo di zero emissioni nette di gas serra entro il 2040, nonostante i suoi piani documentati per aumentare la produzione e la mancanza di prove a sostegno della fattibilità e realizzabilità del piano.

In generale, raggiungere lo “zero netto” significa annullare la quantità di gas serra prodotti dalle attività riducendo le emissioni e implementando metodi di assorbimento dell’anidride carbonica dall’atmosfera (noti anche come “compensazione”). Secondo la denuncia presentata dallo Stato di New York, non esisterebbero, però, delle pratiche agricole comprovate tali da consentire al gruppo JBS di ridurre le proprie emissioni di gas serra a zero sulla scala attuale dell’azienda, in considerazione anche del fatto che compensare le emissioni sarebbe “un’impresa costosa di livello senza precedenti”.

Nel 2021, il gruppo JBS ha riferito che le emissioni globali totali di gas serra dell’azienda erano di oltre 71 milioni di tonnellate. L’Ufficio del Procuratore Generale di New York ipotizza, peraltro, che questa quantità sia probabilmente più alta, perché non tiene conto di “tutte le emissioni di gas serra attribuibili alla produzione di bestiame nella catena di approvvigionamento, che potrebbero costituire circa il 90% delle sue emissioni complessive”.

Le contestazioni mosse a JBS partono dal presupposto, ben valorizzato dall’ufficio del Procuratore Generale Letitia James, che i consumatori sono disposti a spendere di più per i prodotti che pubblicizzano benefici ambientali, poiché “più di due terzi degli adulti americani sono disposti a pagare per prodotti più sostenibili e trovano materiale con dichiarazioni di sostenibilità nei loro acquisti“. La pubblicità di vantaggi di sostenibilità non comprovati è considerata ingannevole e costituisce una violazione delle leggi dello Stato di New York sulla protezione dei consumatori.

Questa non è la prima volta che al gruppo JBS vengono contestate le dichiarazioni rese in materia di emissioni. Nel 2023, la National Advertising Division (NAD) ha, infatti, raccomandato al gruppo JBS di interrompere le sue ambiziose dichiarazioni sulle emissioni nette pari a zero, poiché “crea ragionevolmente grandi aspettative“, richiedendo, nel contempo, “prove significative e misurabili che gli sforzi dell’inserzionista stiano fornendo benefici ambientali con un impatto molto specifico“. Pur a fronte dell’impegno di JBS di adeguarsi alle raccomandazioni della NAD, per il Procuratore Generale dello Stato di New York la multinazionale brasiliana continuerebbe, però, a pubblicizzare, anche sul proprio sito internet, il programma e la sua mission “zero emissioni”.

L’AG di New York, con la causa da poco intentata, cerca di vietare al gruppo JBS di continuare le presunte pratiche di marketing false e fuorvianti (greenwashing), ciò che potrebbe comportare per la multinazionale brasiliana, se le contestazioni dovessero essere confermate, l’obbligo di restituire tutti i profitti realizzati sulla base delle affermazioni ambientali ingannevoli.

Riflessioni di diritto interno sul caso JBS

Il caso JBS, ovviamente se quanto contestato dal Procuratore Generale di New York dovesse essere confermato all’esito della causa intentata, costituisce un classico caso di greenwashing, come tale vietato anche nel nostro Paese.

La causa avviata dall’AG di New York muove, infatti, da contestazioni e rilievi che, pur nella diversità delle leggi vigenti, trovano una tutela, sul piano della pubblicità ingannevole, anche nel nostro ordinamento, mirando a tutelare i consumatori che, come si legge nel comunicato diffuso dall’Ufficio del Procuratore Generale Letitia James, “sono sempre più preoccupati per il loro impatto sull’ambiente e ripongono maggiore fiducia nelle aziende e nei marchi che si impegnano a essere sostenibili o attenti al clima”.

Non a caso – e si tratta di attività vietata anche nel nostro ordinamento – si contesta a JBS di aver reso dichiarazioni sul suo programma “zero emissioni” non supportate da evidenze e prove scientifiche, ma anche fuorvianti e ingannevoli, in quanto JBS, secondo le prove raccolte dall’Ufficio del Procuratore Generale, avrebbe comunicato ai consumatori l’impegno a ridurre l’impatto ambientale delle sue attività al solo fine di “mantenere la sua quota nel mercato alimentare”.

Si tratta di pratiche (sempre se confermate) che risultano vietate anche dalla legge italiana e da quella comunitaria in materia di pubblicità ingannevole, che – nel rapporto con i competitors – trovano, poi, l’ulteriore limite che deriva dalle norme poste a tutela del corretto svolgimento della concorrenza tra le imprese, non potendosi dubitare del fatto che i green claims e le dichiarazioni ambientali ingannevoli costituiscono un atto di concorrenza sleale, stante il generale divieto di utilizzare ogni “mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale idoneo a danneggiare l’altrui azienda” (Articolo 2598 Codice civile).

Il comportamento contestato a JBS dal Procuratore Generale di New York potrebbe quindi venire contestato – quale pubblicità ingannevole – anche al nostro Paese, con contestazione riservata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, mentre, a fronte di comunicazioni fuorvianti in materia di emissioni, un’azienda potrebbe venire “denunciata” anche da un’azienda concorrente, con la richiesta di sanzioni inibitorie e risarcito

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