Agevolazione del caporalato e amministrazione giudiziaria, il caso Armani

Modello di organizzazione

Il rischio caporalato nell’esternalizzazione delle lavorazioni. Agevolazione colposa del caporalato e amministrazione giudiziaria, il caso Armani

 

A distanza di pochi mesi dal decreto con il quale era stata disposta l’amministrazione giudiziaria dell’Alviero Martini, il Tribunale di Milano, con un recente decreto, è ritornato sul tema dell’agevolazione colposa del caporalato ai fini dell’applicazione della misura dell’amministrazione giudiziaria (Art. 34 del Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159).

Questa volta il Tribunale di Milano, con un provvedimento simile a quello emesso a inizio anni nei confronti della nota azienda produttrice di borse e accessori identificati da carte geografiche, ha disposto l’amministrazione giudiziaria di una società del gruppo Armani, la Armani Operations, ribadendo l’orientamento già espresso in materia di agevolazione colposa del caporalato ai fini dell’applicazione della misura della amministrazione giudiziaria.

Il Tribunale, anche con il recente decreto, ha preso le mosse dalla considerazione che, “sul piano del profilo soggettivo richiesto per l’applicazione della misura di prevenzione, il soggetto terzo debba porre in essere una condotta censurabile quantomeno su un piano di rimproverabilità “colposa”, quindi negligente, imprudente o imperita, senza che ovviamente la manifestazione attinga il profilo della consapevolezza piena della relazione di agevolazione”, essendo questo ultimo caso ascrivibile, nella cornice dolosa del diritto penale, ad ipotesi concorsuali o di favoreggiamento.

In sostanza, per il Tribunale di Milano, essendo l’amministrazione giudiziaria posta anche a favore e a tutela dell’attività imprenditoriale e della sua trasparenza, occorre (ed è sufficiente) che “la condotta del terzo possa e debba essere censurata esclusivamente sul piano del rapporto colposo” e, quindi, della violazione delle normali regole di prudenza e di buona amministrazione e gestione imprenditoriale che “la stessa società si sia data (magari dotandosi di un codice etico) o che costituiscano norme di comportamento esigibili sul piano della legalità da un soggetto che opera ad un livello medio-alto nel settore degli appalti di opere e/o servizi”.

Per il Tribunale di Milano, con una censura che sembra investire l’intera filiera del lusso stante il ripetuto e indistinto riferimento brand dei beni di lusso, “i grandi marchi mostrano una generalizzata carenza di modelli organizzativi ai sensi del D. Lgs 231/2001 e un sistema di internal audit fallace, con ciò integrando i presupposti di cui all’art. 34 D. Lgs 159/2011”, in quanto le carenze organizzative e i mancati controlli “agevolano (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di cui all’art. 603-bis c.p.c.”, ovvero i soggetti ai quali vien ascritto il reato di caporalato.

A ciò, nel caso specifico, si aggiunge il fatto che la società non avrebbe mai controllato la catena produttiva dei sui fornitori e le concrete modalità di produzione adottate dagli stessi, rimanendo inerte, pur essendo venuta a conoscenza dell’esternalizzazione della produzione da parte delle società fornitrici, “omettendo di assumere iniziative come la richiesta formale di verifica della filiera dei sub-appalti, di autorizzazione alla concessione dei sub appalti o la rescissione dei legami commerciali, con ciò realizzandosi, quantomeno sul piano di rimprovero colposo determinato dall’inerzia della società, quella condotta agevolatrice richiesta dalla fattispecie ex art. 34 D. Lvo 159/2011 per l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria”.

Né, proprio per questi motivi, può ritenersi esclusa l’agevolazione colposa del reato di caporalato, a fronte della previsione in contratto del divieto di subappalto, a fronte ovviamente di una situazione di fatto in cui i beni (di lusso) erano effettivamente prodotti da aziende diverse da quella appaltatrice, ovvero, nel caso, “da opifici cinesi operanti in regime di sfruttamento dei lavoratori”.

Al fine di sottrarsi alla contestazione di aver colposamente agevolato il reato la società avrebbe dovuto, infatti, “verificare la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici”, che peraltro non avevano neppure un reparto produzione, eventualmente interrompendo, all’esito della verifica, il relativo rapporto contrattuale.

Interessanti, sul punto, sono le considerazioni finali del Pubblico Ministero: “A nulla valgono i codici etici, i modelli di gestione e controllo, le certificazioni di sostenibilità quando, per il raggiungimento del maggior profitto al più basso costo possibile, si consente la creazione di un sistema produttivo a valle della catena che si basa su di una produzione con forza lavoro in condizione di sfruttamento”.

Laddove, nel caso giunto all’esame dei giudici milanesi, la società committente era fornita del Modello di Organizzazione e del Codice etico e aveva effettuato audit formali presso le società appaltatrici, senza, peraltro, “mai evidenziare il fatto che dette società non erano dotate di un reparto produttivo per industrializzare il prodotto commissionato”.

Alla luce del criterio di proporzionalità fra situazione concretamente accertata e misura di prevenzione, il Tribunale di Milano ha, quindi, ritenuto che “l’attuale formulazione dell’art. 34, comma terzo, D. Lvo 159/2011 consenta un intervento nella gestione societaria non implicante necessariamente l’impossessamento totale dell’attività di impresa e l’assunzione integrale dei poteri di gestione, prevedendosi la facoltà (e non l’obbligo) per l’amministratore giudiziario di esercitare “i poteri spettanti agli organi di amministrazione e altri organi sociali secondo le modalità stabilite del Tribunale”, con una dizione letterale che demanda, dunque, al Tribunale la valutazione in ordine alle concrete modalità di intervento” all’esito di una valutazione comparata e ponderata del grado di infiltrazione delittuosa e del settore interessato in rapporto alle dimensioni della società committente, con la necessità, peraltro, di salvaguardare la continuità aziendale e i livelli occupazionali.

Sulla base di queste considerazioni – essendo la società “un’impresa pienamente operativa, rappresentativa del cd “Made in Italy” tanto apprezzato all’estero ed avente rilevanti dimensioni” – per il Tribunale di Milano, in applicazione del principio di proporzionalità, la misura dell’amministrazione giudiziaria deve (e può), quindi, essere modulata in modo da assicurare il controllo da parte del Tribunale sugli organi gestori (per esempio per sostituire i componenti della governance e degli organi di controllo e per adeguare i presidi di controllo interno), lasciando, però, il normale esercizio di impresa in capo agli organi di amministrazione societaria.

Nel caso, il giudice ha, conseguentemente, ritenuto che “l’intervento dell’amministratore (giudiziario)”, da svolgersi ove possibile d’intesa con gli organi amministrativi della società, “dovrà essere finalizzato ad analizzare i rapporti con le società fornitrici in modo da evitare che la filiera produttiva di articoli attraverso appalti e sub appalti con realtà imprenditoriali che adottino illecite condizioni di sfruttamento dei lavoratori di cui all’art. 603 bis c.p.”, al fine di rimuovere, ove necessario, “i rapporti contrattuali tuttora in essere con soggetti direttamente collegati a tali realtà imprenditoriali”, adottando, nel contempo, un Modello di organizzazione idoneo a prevenire il reato di caporalato e rafforzando i presidi di controllo interno.

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