Il parlamento europeo entra a gamba tesa sul greenwashing

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Approvata dal Parlamento europeo la nuova Direttiva in materia di greenwashing. Vietate le dichiarazioni generiche e non verificate, una stretta anche sui rating di sostenibilità.

 

1 – La nuova disciplina in materia di greenwashing

Lscorso 17 gennaio il Parlamento europeo ha approvato il testo della nuova Direttiva in materia di greenwashing (per “la responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela delle pratiche sleali e dell’informazione”).

La Direttiva, che dovrà peraltro ricevere l’approvazione definitiva del Consiglio per essere poi pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea, recepisce sostanzialmente la Proposta di direttiva approvata dallo stesso Parlamento l’11 maggio 2023 con l’obiettivo di “contrastare le pratiche commerciali sleali che distolgono i consumatori da scelte di consumo sostenibili”.

Dal momento della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale gli Stati membri avranno, quindi, ventiquattro mesi di tempo per recepirla.

Con la nuova Direttiva, che andrà a modificare le Direttive 2005/29/CE (“relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”) e 2011/83/UE (“sui diritti dei consumatori”) saranno aggiunte all’elenco UE delle pratiche commerciali scorrete – e, pertanto, vietate – una serie di strategie di marketing (sui temi green e sociali) oggi molto in voga, ma che per il Parlamento europeo presentano invece delle criticità, ovvero delle  “problematiche legate al cosiddetto greenwashing (ambientalismo di facciata) e all’obsolescenza precoce dei beni” (Comunicato stampa Parlamento Europeo, 17 gennaio 2024).

Soffermandoci sulle tematiche più strettamente green e sociali (e tralasciando quindi le pratiche commerciali associate all’obsolescenza precoce dei beni), la Direttiva appare destinata ad avere, come indubbiamente avrà, delle ricadute significative sulle strategie di comunicazione, in ambito green e di sostenibilità, per come sino ad oggi attuate da molte aziende, che saranno, quindi, chiamate a rivedere le loro asserzioni ambientali e di corporate governance per evitare i rischi associati ad una pubblicità ingannevole, non solo sul piano reputazionale, ma anche su quello legale (quali, a titolo esemplificativo, sanzioni amministrative pecuniarie e inibitorie, risarcimento danni per concorrenza sleale).

La nuova normativa mira, infatti, a rendere l’etichettatura dei prodotti più chiara ed affidabile, vietando le asserzioni e le dichiarazioni ambientali generiche, come, ad esempio, “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, “rispettoso dal punto di vista ambientale”, “che salvaguarda l’ambiente”, “a base biologica” (o dichiarazioni simili).

Con l’entrata in vigore della nuova Direttiva saranno, dunque, ammesse soltanto le dichiarazioni ambientali (e sociali, sul punto infra) specifiche.

Mutuando un esempio contenuto nelle premesse della Direttiva, dovrà, così, considerarsi generica (e, pertanto, vietata) una dichiarazione del tipo “imballaggio rispettoso dal punto di vista del clima”, mentre sarà ammessa (in quanto specifica) l’asserzione “il 100% dell’energia utilizzata per produrre questo imballaggio proviene da fonti rinnovabili”.

E ancora – prendendo invece a prestito il diverso esempio contenuto nella Proposta di Direttiva approvata dal Parlamento europeo l’11 maggio 2023 – dovrà considerarsi generica un’asserzione (riferita al prodotto) del tipo “biodegradabile”, mentre si potrà utilizzare (in quanto specifica) la dichiarazione “imballaggio biodegradabile mediante compostaggio domestico entro un mese“.

Risulta chiaro quindi che, con l’entrata in vigore della nuova Direttiva, non si potranno più usare molte delle dichiarazioni ambientali o di sostenibilità attualmente impiegate o come fino ad oggi utilizzate, risultando vietate tutte le asserzioni ambientali generiche “in assenza di un’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione”.

La Direttiva vieta, poi, le dichiarazioni ambientali riferite ad un prodotto nel suo complesso o all’attività di un’impresa o di una società nel suo complesso, quando, invece, la relativa asserzione si riferisce soltanto ad una parte del prodotto o dell’attività di un’impresa.

La nuova normativa imprime, altresì, una stretta anche sull’impiego dei marchi (o rating) di sostenibilità vietando “l’esibizione di tutti quei “marchi di sostenibilità che non sono basati su di un sistema di certificazione o che non sono stati stabiliti da autorità pubbliche”.

Le nuove norme, infine, non consentiranno di utilizzare neppure tutte quelle dichiarazioni ambientali che suggeriscono un impatto sull’ambiente neutro, ridotto o positivo in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni dei gas serra.

2 – Il greenwashing nel contesto della nuova Direttiva

Anche se la Direttiva non contiene una specifica definizione di greenwashing, sembra però potersene ricavare che, con la sua entrata in vigore, costituirà greenwashing il “dire o fare una cosa che non riflette in modo chiaro il profilo di sostenibilità di un ente, di un prodotto o di un servizio, secondo la definizione a suo tempo elaborata dalle principali autorità di vigilanza europee in ambito finanziario, ovvero l’European Securities and Markets Authority (ESMA), l’European Banking Authority (EBA) e l’European Insurance and Occupational Pensions Authority (EIOPA).

Si tratta, indubbiamente, di una definizione molto più ampia rispetto a quella in precedenza fornita in ambito CE, laddove il greenwashing risultava confinato nell’ambito delle (sole) asserzioni ambientali e delle (sole) dichiarazioni ecologiche “non veritiere o che non possono essere verificate” (Commissione Europea, Documento di Orientamento 25 maggio 2016, relativo all’applicazione della Direttiva 2005/29/CE sulla pubblicità ingannevoli).

Il greenwashing, con la nuova Direttiva, varca pertanto gli stretti confini delle tematiche green, con una regolamentazione destinata a trovare applicazione non soltanto per le asserzioni ambientali, ma anche per quelle sociali e, quindi anche se in parte, per quelle di corporate governance, se non, forse, tutte le dichiarazioni in ambito ESG o che involgono uno dei fattori ESG.

La modifica apportata all’Art. 6, paragrafo 1, lettera b) della Direttiva 2005/29/CE non può, del resto, essere letta diversamente in quanto tra le informazioni relative al prodotto che un operatore economico deve rendere correttamente non ci sono più soltanto quelle relative alla sua composizione, ma anche quelle “ambientali o sociali”, compresi “gli aspetti relativi alla circolarità, quali la durabilità, la riparabilità o la riciclabilità”, laddove le informazioni sociali possono riguardare “la qualità e l’equità delle condizioni di lavoro della forza lavoro interessata, quali salari adeguati, protezione sociale, sicurezza dell’ambiente di lavoro e dialogo sociale”, ma anche “il rispetto dei diritti umani, la parità di trattamento e di opportunità per tutti, compresi la parità di genere, l’inclusione e la diversità, i contributi alle iniziative sociali o gli impegni etici, quali il benessere degli animali”.

Ne deriva, di conseguenza, che non si potranno più usare – con evidente impatto sulle comunicazioni e dichiarazioni ESG di impresa o di sostenibilità di prodotto o di impresa – asserzioni e dichiarazioni generiche, come “consapevole”, “sostenibile” o “responsabile”, basate sulla sola “eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali, in quanto tali asserzioni riguardano altre caratteristiche oltre a quella ambientale, come le caratteristiche sociali”.

Per le aziende pertanto, per potersi presentare come sostenibili o per rendere una dichiarazione di sostenibilità autoreferenziale o riferita ai loro prodotti, non sarà più sufficiente, quindi, l’adozione (ed il rispetto) di politiche aziendali green-friendly, dovendo adottare (e rispettare) anche delle adeguate politiche sociali e di corporate governance, in mancanza delle quali si potrebbe configurare una pubblicità ingannevole o un atto di concorrenza sleale.

Ricordiamo che per l’Articolo 2598 del Codice civile compie atti di concorrenza sleale anche chi “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda” e che, tra i mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale, rientrano indubbiamente anche le “pratiche commerciale scorrette”  disciplinate dalla nuova Direttiva in aggiunta a quelle già vietate in precedenza dalla normativa europea e nazionale in materia di pubblicità ingannevole.

3 – Dal greenwashing al greenbickering?

La nuova normativa, ovviamente, mira a tutelare i consumatori rispetto a tutte quelle pratiche commerciali che possono indurli a ritenere che un prodotto o un’impresa “siano più vantaggiosi per i consumatori, l’ambiente o la società” rispetto “ad altri prodotti o imprese (…) dello stesso tipo” (pubblicità ingannevole), ma potrebbe avere, come ha avuto (ed ha) la normativa in materia di pubblicità ingannevole, importanti ricadute anche sul piano della concorrenza, ovvero della concorrenza sleale.

Con l’entrata in vigore della nuova normativa il greenwashing potrebbe quindi diventare, sempre più, greenbickering (“battibecco green”), risultandone notevolmente ampliata la platea dei casi nei quali risulta vietato un utilizzo improprio della leva della sostenibilità (per non essere più riferita soltanto alle tematiche green), potendo  conseguentemente un’azienda agire – riteniamo con più facilità rispetto a prima – per concorrenza sleale nei confronti di un’azienda concorrente sul presupposto di un utilizzo scorretto (o ingannevole o, soprattutto, non verificato) non solo delle leve ambientali, ma anche di quelle sociali e di corporate governance.

4 – Il ruolo della consulenza legale per evitare il rischio greenwashing

Già da una prima lettura della nuova Direttiva risulta chiaro che promuovere genericamente o in modo non veritiero e verificato un prodotto o un’attività economica come “sostenibile” potrebbe ora costare caro ad un’azienda.

Con l’entrata a pieno regime della nuova Direttiva sarà dunque necessario, nella normale pratica di consulenza legale aziendale, che l’esame preventivo delle comunicazioni aziendali da parte della funzione legale (interna o esterna che sia) sia più che mai rigoroso ed accurato.

La consulenza legale o comunque la preventiva valutazione di qualsiasi messaggio diretto a veicolare un prodotto o un’attività di impresa in chiave green e di sostenibilità, appare, dunque, destinata a giocare un ruolo sempre più centrale, anche perché l’accertamento di una condotta di greenwashing può portare, come detto, non soltanto all’applicazione di sanzioni pecuniarie (e, prima ancora, inibitorie) da parte delle Autorità competenti, ma può causare anche una perdita di fiducia da parte dei clienti e dei consumatori con un evidente danno reputazionale, così come potrebbe avere delle ricadute negative con gli stakeholder.

A tacere, ovviamente, dei rischi sul piano civilistico (concorrenza sleale) e penale (truffa e frode in commercio), ma anche in materia di responsabilità amministrativa degli enti (Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231) in relazione al reato di frode in commercio.

Risulta pertanto quanto mai opportuno che l’attività volta a definire le asserzioni ambientali o di sostenibilità rivolte verso l’esterno sia presidiata anche dalla funzione legale interna o da quella esterna incaricata della consulenza legale, al fine di verificare che le stesse riflettano effettivamente un’eccellenza ambientale o sociale del prodotto o dell’azienda, costituendo diversamente delle asserzioni generiche e come tali vietate, con ogni conseguente rischio per l’azienda.

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