Il diritto societario come fattore di integrazione della sostenibilità nella gestione di impresa. La Direttiva CSRD e le clausole statutarie di sostenibilità.
1 – Introduzione
Il tema della sostenibilità riveste un ruolo sempre più centrale nelle politiche di impresa delle società, anche per gli innegabili vantaggi che ne derivano sul piano reputazionale, pur in mancanza, a differenza delle società benefit, di un quadro normativo di riferimento nell’ambito del diritto societario.
Il perseguimento di politiche improntate alla sostenibilità nella gestione di impresa, fatta eccezione per le società benefit e per gli enti di interesse pubblico – ed in attesa dell’entrata in vigore della Direttiva CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) – risulta attualmente rimesso, di fatto, alla buona volontà (e buona fede) dell’organo amministrativo, con dichiarazioni attualmente rese su base volontaria e che pertanto, in mancanza di una norma di diritto positivo, incontrano soltanto i limiti (anche sul piano sanzionatorio) che derivano dalle norme in materia di pubblicità ingannevole e del consumo, nonché da quelle del Codice civile in materia di concorrenza sleale.
Il tema della sostenibilità, oggi particolarmente di moda e al centro degli interessi del legislatore, si lega storicamente, ma anche concettualmente, al tema della responsabilità sociale di impresa entrato nella realtà aziendale su base volontaria, come fattore di integrazione dei fattori sociali e ambientali nella normale attività di impresa.
Il diritto societario, in questo scenario, è destinato quindi a giocare – e lo sarà sempre più con l’entrata a pieno regime della Direttiva CSRD – un ruolo centrale per lo sviluppo sostenibile.
2 – La Direttiva CSRD e gli obblighi di rendicontazione delle “informazioni di sostenibilità”
Il 16 dicembre 2022, nell’ambito del Green Deal europeo, è stata approvata la Direttiva europea 2002/20464 (CSRD), che gli Stati membri dovranno recepire entro diciotto mesi dalla sua pubblicazione.
La Direttiva CSRD è andata a modificare la precedente disciplina europea (Non-Financial Reporting Directive) relativa alle dichiarazioni di carattere non finanziario, ampliando la platea delle aziende obbligate a rendere la rendicontazione di sostenibilità, in quanto la nuova normativa troverà applicazione, oltre che per le imprese già soggette alla Direttiva NFRD, per tutte le grandi imprese (a partire dal 2026, con riferimento all’anno fiscale 2025) e per tutte le imprese quotate – quindi, anche per le piccole e medie imprese – con la sola eccezione delle microimprese (a partire dal 2027, con riferimento all’anno fiscale 2026).
Il calendario dell’entrata in vigore degli obblighi di rendicontazione di sostenibilità sembra, peraltro, destinato a slittare in avanti. E’ infatti di pochi giorni fa la notizia che il Parlamento europeo ha votato una proposta della Commissione che prevede uno slittamento di due anni a favore di alcuni specifici settori economici.
Al fine di comprendere l’ampliamento del perimetro delle aziende che saranno coinvolte nella redazione dell’Informativa di Sostenibilità sarà sufficiente ricordare che si considerano “grandi imprese” tutte le società che alla data di chiusura del bilancio, anche su base consolidata, abbiano superato almeno due dei criteri dimensionali indicati nella Direttiva CSRD (250 dipendenti, < 20 milioni di euro di stato patrimoniale, < 40 milioni di euro di ricavi netti), mentre per le società quotate gli obblighi di rendicontazione di sostenibilità scatteranno al superamento dei ben più ridotti criteri dimensionali individuati dalla stessa Direttiva (10-250 dipendenti, 350 mila-20 milioni di euro di stato patrimoniale, 700 mila-40 milioni di fatturato).
L’obiettivo della Direttiva CSRD è quello di migliorare l’Informativa di sostenibilità, equiparando la rilevanza dei fattori ESG a quella dei fattori riportati nel bilancio civilistico, riconoscendone di fatto la naturale connessione. Non a caso, pertanto, l’Informativa sulla sostenibilità dovrà essere collocata all’interno della Relazione sulla gestione e non in un documento a sé stante, con una pubblicazione quindi simultanea delle informazioni finanziarie e di sostenibilità, con lo scopo di consentirne una lettura ed una valutazione integrata.
Il sustainability reporting costituirà, a ben vedere, il futuro della rendicontazione aziendale nell’ambito del Grean Deal, quale fattore trainante nel percorso verso un’economa sempre più sostenibile, stante anche l’ampiezza delle Informazioni di sostenibilità che le aziende obbligate dovranno rendere, dovendo indicare, solo per ricordare quelle principali,
- Una descrizione del modello e delle strategie aziendali e della loro resilienza in relazione ai rischi collegati alla matrice di sostenibilità;
- I piani dell’impresa atti a garantire che il modello e le strategie aziendali siano compatibili con la transizione verso un’economia sostenibile e con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5° C in linea con l’Accordo di Parigi e l’obiettivo dell’UE di conseguire la neutralità climatica entro il 2050;
- Una descrizione del ruolo degli organi di amministrazione, gestione e controllo per quanto riguarda gli aspetti collegati alla sostenibilità, comprese le informazioni sull’esistenza di sistemi di incentivi destinati agli stessi connessi alle questioni di sostenibilità;
- Una descrizione degli obiettivi e delle politiche dell’impresa in relazione alle questioni di sostenibilità;
- Una descrizione delle procedure di dovuta diligenza applicate dall’impresa in relazione alle questioni di sostenibilità.
L’Informativa di sostenibilità dovrà essere resa secondo il principio di doppia materialità, dovendo specificare i principali impatti legati alle attività di impresa e alla sua catena di valore sulla società e sull’ambiente (prospettiva inside-out) e i rischi e le opportunità dei fattori di sostenibilità che influenzano lo sviluppo e la performance ambientale (prospettiva outside-in).
Le società che rientrano nel campo di applicazione della Direttiva CSRD dovranno, inoltre, includere nell’Informativa di sostenibilità anche le informazioni sugli impatti materiali, sui rischi e sulle opportunità connesse all’intera catena del valore a monte e a valle, quali risultanti dalle attività di due diligence e dall’analisi di materialità, con un obbligo, inoltre, di assurance, essendo previsto anche per l’Informativa di sostenibilità un obbligo di revisione al fine di attestare la conformità della rendicontazione alle relative prescrizioni ed ai principi di rendicontazione di sostenibilità
Le imprese, nella redazione dell’Informativa di sostenibilità, saranno tenute ad adottare gli standard di rendicontazione (European Sustainability Reporting Standard) elaborati dall’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group), che contengono principi di informativa sui fattori ambientali, sociali e di governance, che saranno, peraltro, diversi per le PMI al fine di tener conto delle loro esigenze.
La Direttiva CSRD è indubbiamente destinata ad aumentare, pertanto, il grado di responsabilità delle aziende per quanto riguarda la sostenibilità e nella creazione di valore sostenibile a lungo termine che incorpori le crescenti aspettative in materia di sostenibilità degli stakeholder.
3 – Le clausole di sostenibilità negli statuti delle società
Alle società è, peraltro, consentito di fare un passo ulteriore nella transizione verso un’economia sostenibile, potendo scegliere di elevare la sostenibilità a norma di rango interno con l’inserimento di clausole di sostenibilità nei loro statuti, con lo scopo di connotare e perimetrare la loro normale attività di impresa in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale, anche per quanto riguarda le modalità di conseguimento dei relativi obiettivi.
La possibilità di inserire delle clausole di sostenibilità negli statuti delle società è stata, del resto, recentemente sdoganata dal Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie con la pubblicazione degli orientamenti societari “ESG e clausole di sostenibilità”, che spaziano dall’oggetto sociale, al contemperamento degli interessi dei soci con quelli degli stakeholder, alle modalità di gestione sostenibile del business, alle clausole di gradimento e sostenibilità dei soci, fino alla valutazione della performance (ambientale e sociale) degli amministratori ed alla consultazione degli stakeholders da parte degli amministratori (stakeholder enagement).
Ma cosa sono le clausole di sostenibilità?
Le clausole di sostenibilità, nella definizione che ne ha dato il Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie, sono tutte quelle clausole statutarie che “costituiscono espressione di ideali collettivi, valori sociali e principi etici, quali la protezione dell’ambiente, la promozione del lavoro, la cura ed il benessere dei dipendenti e della collettività, e in generale di un impegno di salvaguardia dei diversi interessi non economici implicati nell’attività di impresa”, con lo scopo di connotare in chiave ESG (o di sostenibilità ambientale e sociale) l’attività che costituisce l’oggetto sociale di una società e/o le modalità del suo conseguimento attraverso la definizione (statutaria) delle linee di condotta degli amministratori.
In tutto gli orientamenti societari pubblicati dai Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie sono sei e corrispondono ad altrettante clausole che si possono legittimamente – ed auspicabilmente – inserire negli statuti delle società.
L’orientamento A.B.1 (“Legittimità delle clausole che prevedono lo svolgimento di una attività economica con criteri diversi da quello del massimo profitto”), muove, quale punto di integrazione dei fattori ESG nell’attività di impresa, dalla considerazione che non sussiste nel nostro ordinamento “alcuna disposizione positiva o principio di diritto che imponga agli amministratori di società lucrative di attuare l’oggetto sociale avendo riguardo al solo interesse dei soci alla massimizzazione del profitti”, laddove, per contro, è la stessa Costituzione (Articolo 41, comma 2^) a prevedere (o, meglio, a disporre) che “l’esercizio di una qualunque attività economica, ossia la ricerca di un profitto non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il principio espresso nell’Articolo 41 della nostra Costituzione diventa, quindi, l’elemento che giustifica e legittima la previsione nello statuto di specifiche regole etiche e di sostenibilità, che, stante la previsione statutaria, devono quindi essere rispettate nella gestione della società anche a scapito della massimizzazione dei profitti.
Ecco, pertanto, che devono considerarsi – e sono quindi – legittime le “clausole dell’atto costitutivo e dello statuto che, fermo restando quanto genericamente disposto dall’Art. 41 Cost., dettano specifiche regole etiche e/o di sostenibilità che devono essere rispettate nella gestione della società, anche a scapito della massimizzazione dei profitti e della efficienza produttiva”, in quanto integrano una modalità di perseguimento del fine di lucro, senza aggiungere ad esso un ulteriore fine di utilità sociale, “fine quest’ultimo di per sé estraneo al contratto di società come definito dall’art. 2247 c.c.” e che, per questo motivo, non può pertanto essere inserito nell’oggetto sociale.
Si tratta di clausole che devono ritenersi legittime anche in mancanza dell’adozione della qualifica di società benefit, essendo ammissibile anche nelle società lucrative il perseguimento di finalità diverse od ulteriori rispetto a quella di massimizzazione del profitto.
L’ammissibilità delle clausole di sostenibilità trova, peraltro, un doppio limite. Il primo, nel carattere produttivo dell’attività di impresa e nello scopo di lucro delle società, che non possono essere revocati ed esclusi dall’autonomia statutaria, ed il secondo nel “principio di esclusività della funzione gestoria che presidia il ruolo dell’organo amministrativo”, per come risultante dalle norme di diritto societario, che “non è riducibile a mera attuazione di un programma predefinito che identifichi una determinata attività nei singoli atti destinati a comporla”.
Ne deriva che, in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale, è possibile operare ponendo delle limitazioni ai poteri gestori degli amministratori per come risultanti dal nostro sistema di diritto societario, fermo restando, ovviamente, il principio dell’esclusività di quei poteri in capo all’organo amministrativo, con delle clausole statutarie destinate, quindi, ad operare sul piano delle modalità di conseguimento dell’oggetto sociale, quali “l’enunciazione dei principi etico-sociali che dovranno informare l’operato dell’organo amministrativo”, ovvero la “definizione delle linee di condotta del medesimo organo, sia in forma impositiva che in forma preclusiva rispetto all’adozione di determinate strategie o categorie di operazioni”.
Si tratta, peraltro, di clausole, secondo anche una valutazione del Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie, destinate non già à restringere ma ad ampliare la discrezionalità dell’organo amministrativo, “riconoscendo allo stesso la possibilità di definire strategie di impresa volte al conseguimento di un equilibrio tra i diversi interessi implicati”, nonché di assumere decisioni gestorie che non abbiano come unico fine quello di massimizzare il profitto o di incrementare la redditività della partecipazione sociale.
Con riferimento all’orientamento A.B.2 (“Clausola di destinazione di utili a finalità di sostenibilità”), il Comitato interregionale dei Consigli notarili delle Tre Venezie conferma la legittimità delle clausole di destinazione parziale degli utili a finalità di sostenibilità, sia pure con la precisazione che l’etero-destinazione (parziale) degli utili deve comunque essere correlata alla “cura di interessi correlati alla natura dell’attività di impresa”, a condizione, inoltre, che non venga pregiudicato lo scopo di lucro della società e che, avendo la destinazione di una parte degli utili ad una determinata finalità o iniziativa di sostenibilità carattere gestorio, “la destinazione ed il relativo importo non siano predeterminati”.
Anche in presenza di una clausola di destinazione di parte degli utili a finalità di sostenibilità, sarà quindi l’organo amministrativo, quale esplicazione del suo potere gestorio, a fissare, sulla base del risultato di esercizio, l’effettiva destinazione degli utili ed il relativo importo, entro un limite massimo che può essere stabilito (ex ante) dallo statuto, oppure previa autorizzazione dell’Assemblea dei soci ove prevista dallo statuto ai sensi dell’Articolo 2364, comma 1, n. 5, Codice civile (l’Assemblea ordinaria delibera “sulle autorizzazioni eventualmente previste dallo statuto per il compimento degli atti degli amministratori”).
E’ quindi legittima la clausola dello statuto che prevede “la destinazione parziale di utili alla cura di interessi correlati alla natura dell’attività di impresa esercitata, a condizione che:
- la finalità ideale non assuma connotati idonei a pregiudicare lo scopo lucrativo dell’iniziativa;
- la destinazione e il relativo importo non siano predeterminati, essendo la funzione gestoria insuscettibile di essere ridotta a mera esecuzione di un progetto puntualmente determinato”,
a condizione che “l’effettiva destinazione e l’importo da destinare siano determinati dall’organo amministrativo sulla base degli utili risultanti dal bilancio di esercizio sottoposto all’approvazione dell’assemblea, nel rispetto del limite massimo fissato ex ante nella clausola statutaria di destinazione oppure previa autorizzazione dell’assemblea ordinaria ai sensi dell’art. 2364, comma 1, n. 5 c.c., se richiesta dalla medesima clausola statutaria”.
Con gli orientamenti A.B.3 e A.B.4. si prevede, invece, la possibilità di inserire nello statuto delle clausole volte ad assicurare il bilanciamento degli interessi degli stakeholder con quelli dei soci nella definizione delle politiche di sostenibilità e nella loro attuazione, affermandosi la legittimità della clausola di “Integrazione degli stakeholders nelle decisioni dell’organo amministrativo” (orientamento A.B.3), ovvero di quella clausola che impone agli amministratori di “tenere conto degli interessi degli stakeholders nella delineazione delle politiche di impresa e nella loro concreta attuazione”, peraltro con la precisazione che “detta clausola dovrà soddisfare requisiti di analiticità e specificità”.
Parimenti legittime sono anche le clausole statutarie che impongono “agli amministratori obblighi di consultazione con gli stakeholders” (orientamento A.B.4), ovvero che “attribuiscono poteri di voice a determinati stakeholders mediante la previsione di luoghi di sistematica consultazione”
In tal senso è, pertanto, legittima la clausola statutaria che “imponga agli amministratori di consultarsi con comitati esterni o stakeholders individuati nella fase istruttoria preliminare alla decisione amministrativa ed altresì che subordini il potere degli amministratori di porre in essere determinate tipologie di operazioni al consenso o al parere favorevole di un comitato esterno o di stakeholders individuati”.
Si tratta di clausole che, in un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale ed al fine della definizione delle correlative politiche di impresa, devono ritenersi indispensabili al fine di un adeguato contemperamento degli interessi puramente lucrativi con quelli non finanziari e di sostenibilità, costituendo, non a caso, un principio normativo per le società benefit, che sono (e devono essere) amministrate “in modo da bilanciare l’interesse dei soci, il perseguimento delle finalità di beneficio comune e gli interessi” dei soggetti o delle attività beneficiarie dell’attività sociale.
L’orientamento A.B.5 (“Valutazione della perfomance degli amministratori”) interviene sul tema, oggi molto dibattuto, della valutazione della performance ambientale e sociale di impresa e sulla determinazione di una parte del compenso degli amministratori sulla scorta dei risultati conseguiti in ambito ESG, risolvendo in senso positivo la possibilità di introdurre nello statuto delle clausole di “valutazione della performance degli amministratori”.
Deve, quindi, ritenersi – ed è – legittima la clausola dello statuto che “attribuisce ad un gruppo di esperti indipendenti la valutazione periodica della performance ambientale o sociale dell’impresa nonché quella che consente ai medesimi di determinare, in modo vincolante, una parte del compenso degli amministratori sulla base di dati parametri di sostenibilità delle politiche da questi adottate”.
Infine, l’orientamento A.B.6 (“Clausola di gradimento e sostenibilità dei soci”) riconosce la possibilità di inserire nello statuto delle clausole di gradimento di nuovi soci ancorate al possesso di requisiti di carattere etico, così che deve ritenersi legittima anche “la clausola di gradimento che introduca dei requisiti di carattere etico per l’assunzione delle partecipazioni sociale”, a condizione, però, che non sia connotata da una “eccesiva genericità nell’individuazione di detti requisiti”.
L’inserimento delle clausole di sostenibilità all’interno dello statuto rappresenta, indubbiamente, un importante strumento offerto dal diritto societario per l’integrazione della sostenibilità all’interno dei processi decisionali ed alla normale attività di impresa, che, come tale, va ben oltre la semplice adesione su base volontaria a modelli di corporate governance orientati alla sostenibilità, costituendo una regolamentazione vincolante sul piano interno (statutario), che impone, pertanto, agli amministratori di conseguire anche le finalità ambientali e sociali fatte proprie dalla società secondo le modalità risultanti sempre dallo statuto.